Dodici astri si sono raccolti nel cielo ventoso della Provenza. Ognuno con la sua forma, luna, stelle, pianeti, e per ciascuno una luce l’avvolge. Una luce sua propria, ora bianca, ora azzurra, ora bruna.
Osservo e mi chiedo:
- quanto tempo Van Gogh ha passato a fissare quelle stelle?
- perché la notte appariva ai suoi occhi così densa di storie?
- perché ogni punto del cielo gli svelava un racconto?
Pian piano ogni luce gli ha sussurrato una parola: storia di un punto piccolo, perduto nell’universo, di una grande luce che guida i naviganti, e di custodi dei greggi di capre, che in quegli anni ancora dovevano vegliare all’addiaccio sulle pietre calcaree attorno alla montagna della Saint-Victor.
Storie che sono ritmo, musica, silenzio, dialogo profondo tra il cuore dell’uomo e il Signore del cielo, che “chiama ogni stella con il suo nome”, come dice il Salmo 146 (147). Si può fare teologia anche a partire da un quadro e come non stupirsi davanti alla liturgia cosmica di questa notte stellata!
Così ogni stella è apparsa a quel folle olandese, come un sole, come il centro di un mondo, per apprendere a spostare lo sguardo dal nostro piccolo spazio. E la montagna scura, che copre e protegge le spalle del villaggio è ai miei occhi quasi come un azzurro Mombarone.
Anche le case portano una luce al loro interno, ma queste luci raccontano altre storie, sono semplici luci di uomini, non brillano, illuminano a malapena le corti, gli alberi di olivo, gli alberi del giardino, le piante di fichi e di cachi. Non c’è sentiero o strada tra queste case, solo campi e culture di olivi, che riflettono i raggi bianchi della luna, perdendosi in una liturgia cosmica di silenzio, di soffi di vento tra i rami del cipresso.
Gli angeli sono usciti a celebrare sulle colline questa notte, sui primi rilievi attorno al lago, e la piccola chiesa parrocchiale è spenta, addormentata. Solo il campanile si staglia sulle rocce, ago sottile, che sembra quasi voler cucire la trapunta luminosa lassù, con le pezze di terra e mattoni dei nostri vissuti quotidiani. Domani forse, quando si sarà fermato il vento, gli abitanti di san Remy celebreranno la loro liturgia fatta di quotidianità e piccoli gesti, quando “l’uomo esce al suo lavoro, per la sua fatica fino a sera” (Salmo 104 (105), 23).
Per intanto solo un misterioso vento attraversa il cielo, come una mistica tenda, che si solleva per avvolgere, per lasciar passare una presenza, per posarsi come una carezza afferrata dalla mano tesa dal campanile. Grandi fiumi di luce gialli e azzurri, si mescolano nel cielo, mentre gli ulivi e i campi di meloni e lavanda, si tingono di blu, argento e bruno. Gli angeli hanno celebrato.
Ho pensato alle stelle del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, che si trasformano in fiori, in corone, e a questi astri diventati come pozzi di luce; penso al potere trasformativo del cuore dell’uomo che con la parola e lo sguardo sa farsi cercatore della meraviglia divina tra le cose.
I vecchi cipressi danzano nella notte di luna, nella notte di maestrale che porta i profumi del mare e davanti allo stupore di questa liturgia celeste, mi vengono in mente le parole del monaco russo Pavel Florenskij, che agli albori dell’orrore sovietico scrisse:
“Quando provate dolore nell’anima guardate le stelle. Quando vi sentite tristi, quando qualcuno vi offende, quando non vi riesce qualcosa o vi sovrasta la tempesta interiore, uscite fuori e rimanete a tu per tu con il cielo”.
Apprenderemo a ritessere allora il legame con Dio.
Fr. Alberto Maria